Giovanni Pasetti
Un Tuffo nel Mare Blu
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capitolo primo
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Così, io aspettavo che Paola si muovesse, e intanto la mia inquietudine cresceva. Solo nella mia stanza, sul mare, a guardare le onde della solita estate greca che si consumava a ritmo imperturbabile. Avevo già esaminato più volte la situazione, chiedendomi se era opportuno rischiare un primo passo, o invece attendere che lei fosse costretta a raggiungermi, spinta dall’urgenza della sua missione.
Voi non sapete nulla. Paola è stata mia compagna di scuola ai tempi del liceo, vent’anni fa. L’ho anche baciata a lungo, una notte. Tornavamo da una festa idiota e mi sembrava che la sua calma abituale fosse scossa. ‘‘Ho la febbre’’ mi ha detto, e infatti tremava.
Non era bella, allora. Suppongo che non lo sia nemmeno adesso; ma è una di quelle donne dal fisico asciutto, elastico, adatto al mezzofondo, con una bocca che ha bisogno di aprirsi poco per respirare, e occhi che restano sempre all’erta, ti misurano, si muovono liquidamente. Non sprecava mai energia. Io le passavo i compiti di latino facendo in modo che la sua media normale si impennasse, talvolta. Non avevo un secondo fine, o almeno non pensavo di averlo. Forse speravo di toccare anche il suo cuore, che accoglieva come un dono celeste la mia versione, pulita, perfetta, senza errori.
Quando l’ho baciata mi sono meravigliato del suo calore. Non mi piaceva abbandonarmi, perché a quel tempo, oltre ad essere innamorato di molte mie coetanee, rifiutavo ogni rischio. Paola era un rischio evidente. Aveva un ragazzo fisso, uno stupido atleta. Gli metteva il braccio intorno alla vita con intenzione canzonatoria, come un moscerino guida un elefante verso qualche meta completamente ignota. Credo volesse liberarsi in fretta del problema del sesso. Risparmiava le forze per giungere senza intoppi all’esame, al diploma, oltre la valle confortevole in cui riposavamo. La vita era altrove, anch’io ne ero convinto. Ci doveva essere un valico, nascosto tra i monti; lei lo cercava con la leggerezza di uno sherpa tibetano.
Continuavamo a baciarci, quella notte, appoggiati alla porta di casa sua. Io non potevo salire, perché l’appartamento era così piccolo da non permetterle nemmeno una camera tutta per sé. Veniva da una famiglia povera. Mentre la sentivo aggrapparsi alle mie braccia con una passione crescente, un poco mi irrigidivo per l’imbarazzo, per il desiderio di non metterla in difficoltà. ‘‘Seguimi,’’ mormorò ‘‘so dove andare.’’ Mi ha trascinato in un cortile interno, in cui erano appese a fili di plastica sottane, mutande, camicie. Qualcuna gocciolava, e io rabbrividivo per il disagio. Non siamo nemmeno riusciti a fare l’amore, eravamo troppo eccitati e insieme distanti; fingevo di temere che qualcuno ci scoprisse, mentre la nebbia invernale al contrario ci proteggeva, inzuppando i panni sospesi sopra le nostre teste sconvolte, arricciando i miei capelli. Paola ansimò, poi smise; si gingillava con la mia piccola mano come se avesse toccato un sogno antico e si chiedesse in che modo usarlo. Era strano: occorreva inventare un nuovo linguaggio, mezzo nudi e mezzo vestiti, con i calzoni calati sulle ginocchia, il suo collo rosso per i morsi, le dita che stringevano le cosce, bagnate.
‘‘Sei stato il mio ideale di uomo, sai?’’
Sorridevo, tentando di minimizzare quella probabile proposta di fidanzamento. Incominciò a mangiarmi un orecchio, e all’improvviso vidi sangue, un sangue rosso scuro che colava sul muro e mi macchiava. ‘‘No, non spaventarti, non è niente.’’ L’abbracciai forte, con un gesto insensato, quasi volessi rimandare ogni spiegazione, immaginando che un giorno, in un futuro immensamente lontano, qualcosa avrebbe chiarito il nostro rapporto; intanto lasciavo che il sangue si rapprendesse, legandoci, impedendo qualsiasi movimento.
Invece venne presto l’ora di separarci; pedalai verso i quartieri del centro ripetendo ossessivamente poche parole: ‘‘In fretta, una doccia e il letto. Ho freddo, ho sonno.’’
La mattina dopo, in classe, ho evitato il suo sguardo, e l’episodio è rimasto a metà tra lo scherzo e una rappresentazione sacra, in cui l’accaduto non corrisponde a un fatto preciso, ma diventa il simbolo di un destino più alto, imperscrutabile. Finito il tempo delle interrogazioni, l’ho persa di vista subito, così si dice. In città, cercavo notizie di lei, di tanto in tanto. Quando sono partito, dopo la morte dei miei genitori, sapevo solamente che aveva iniziato un corso di giornalismo.
Ricordo che restai abbastanza perplesso, perché non riconoscevo nei suoi tratti caratteristici nessuna qualità di scrittrice. D’altra parte, era in grado di perfezionare rapidamente una rete complessa di relazioni, aiutata in questo dalla sua attitudine a non domandare mai troppo, lasciando che un disinteresse apparente percorresse i meccanismi dell’amare e del parlare. Chi poteva temerla?
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La mia avventura si è svolta in termini molto netti. Quando ho scoperto di avere ereditato una somma considerevole, era ancora ben presente in me l’ansia causata dalla tragedia. Una doppia morte non è più dolorosa di una disgrazia isolata, al contrario. Il ripetersi di un lutto dopo pochi giorni rende le cose più facili; il figlio si tramuta in una specie di piccola divinità a cui è toccato in sorte di amministrare un passaggio di massa, un transito così repentino da sembrare studiato. Mi rimaneva la funzione, l’abbraccio doppio di un parente sconosciuto che non era riuscito a ripartire prima del secondo funerale. Gli amici mi evitavano, pensando forse di trovarsi di fronte a un uomo segnato da un incantesimo; la natura era per un attimo uscita dal binario delle sue abitudini e si lasciava ammirare, scardinata, ai miei piedi.
Dopo un periodo di risvegli bruschi e di intralci burocratici di cui ero già diventato esperto, trovai il coraggio di fuggire, trasformando una vacanza di riposo e di svago nella prima parte di una vita assolutamente diversa.
Ecco, la villa in cui sono, i miei affari, una spiaggia privata che costeggia un golfo di acqua limpida, azzurra e verde, ecco i frutti del cambiamento. Ricchezza, e una solitudine definitiva; ogni impresa si riduce a un giro di frasi, di cifre amministrabili, di dettagli stupendi, ammirati, invidiati. Vivo in mezzo al Mediterraneo, come una ninfa a cui gli dèi dell’Olimpo hanno regalato una striscia di vento, di boscaglia e di mare, da custodire in attesa dell’esplodere ciclico dei secoli. Sul monte che si alza dietro la villa c’è una sorgente, che scende fresca tra gli alberi e si incanala per riempire la mia piscina privata. Ogni mattina mi tuffo nel freddo della fonte; questo mi sveglia più dei caffè bevuti con avidità dagli abitanti del paese che ho lasciato, e in cui non tornerò mai più. Quale vantaggio mi possono offrire, infatti, le droghe e gli inganni?
La Grecia è un arcipelago senza progresso; le consuetudini del luogo sono semplici, come il quadrato di stoffa che mi diverto a piegare intorno al corpo, dimenticando i vestiti. La gente è ancora assediata dalla miseria e i bambini talvolta crescono mal nutriti, anche se il pesce pescato ogni giorno assicura un certo aiuto. Gli abitanti dell’isola sono una razza mista, che ha risentito di troppe invasioni e quindi si mostra cedevole, mansueta; la loro intelligenza è attenta, ma spesso si esaurisce dopo aver stabilito una percentuale minima di guadagno. Io garantisco a tutti, per un raggio di chilometri, una rendita impensabile prima del mio arrivo. Sono abituati a sorridermi, e nessuna disgrazia nazionale è in grado di turbare i loro sogni leggeri.
Si dimenticano della corruzione che trionfa nella capitale, dei convogli di armi che inevitabilmente attraversano i porti. Sono ben felici della protezione di un potente affarista; forse mi paragonano a uno sceicco generoso, sbarcato per depredare il villaggio e caduto poi a dormire sotto il sole, tra l’ombra e la luce, in una vita in cui l’ozio si mescola all’interesse, il gioco ai contratti. I libri che leggevo da bambino esaltavano questa terra prediletta, affrancata dal caos, culla della poesia, della filosofia, del mito. Vederla così, completamente assente e smemorata, è una sensazione che oggi mi conquista ancora, e mi separa per sempre dalla società italiana, dalle sue vecchie trame.
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Non so cosa sarebbe accaduto se Paola non fosse sbarcata ad Atene, con lo scopo di infrangere la mia tranquilla operosità. Certo, le cose non potevano svolgersi in eterno senza intoppi. Per riuscire ad esprimere in pace quello che mi agita e mi commuove, il rimpianto, il delirio, la paura, ho dedicato ogni luogo della casa ad un sentimento. Per esplorare il passato utilizzo oggetti, fotografie, lettere che mi raggiungono dai punti più lontani del globo. La tecnologia è una grande alleata. L’antenna sul tetto intercetta i satelliti, il telefono e la radio mi collegano alle città che ho abbandonato. Infine, gli intermediari dei miei affari hanno il compito di descrivere i progetti politici della terraferma, le schermaglie dei partiti che si combattono in Europa.
Non ho nessuna meta, se non quella di vendere e comprare monete, azioni, proprietà fondiarie, nel tempo esatto ed opportuno. Il mio lavoro consiste nell’anticipare di un giorno, un solo, breve e innocuo giorno, le transazioni che scuotono i mercati. Tanto basta per arricchirmi. La malavita non fa per me; non amo l’idea che qualche capobanda affamato di cocaina possa ordinare la mia morte accusandomi di uno sgarro immaginario. Gli agenti che scelgo hanno come primo vincolo la prudenza e la legalità dei comportamenti. Vedo già abbastanza sangue quando percorro con il telecomando le stazioni che offrono la loro merce al nuovo spettatore intercontinentale. Giustamente, gli inviati amano le stragi, la follia sordida del rapinatore che si trova con le spalle al muro, costretto ad uccidere a colpi di mitra una bambina, buttando sul pavimento della banca una bomba che incendia la carne degli ostaggi. L’immagine di un omicidio non corrisponde mai all’omicidio vero, è naturale; tuttavia, non voglio che la barbarie penetri nell’isola in cui riposo, forse perché detesto la banalità della meccanica omicida, che mi costringerebbe a ricordare situazioni antiche e mi risveglierebbe da un lungo sonno.
Eppure, se la televisione esiste e documenta quello che accade, o almeno riflette l’ombra della realtà a lei più conveniente, una ragione dovrà pur esserci. Ho tra le mani un libro che racconta l’arte del medioevo; lo sfoglio, e vedo capitelli di chiostri che corrispondono a nodi, a intrecci di bestie favolose. Un drago spalanca la bocca e divora il dannato, le serpi dell’idra stringono un uomo che sembra soffocare. Il diavolo trafigge con un forcone una povera donna nuda, con le anche troppo grandi. A destra, due cavalieri si scontrano, ma le loro lance si toccano a malapena, immobilizzate dall’arte dello scultore. Il male, che nella battaglia non trionfa, si nasconde invece nelle profondità delle caverne, dove Lucifero punisce i vizi.
Ora accendo il televisore; subito, da una finestra del telegiornale spunta un corpo dilaniato. Poi un aereo vola nel cielo, senza incontrare nessun ostacolo. Evidentemente l’inferno è risalito, si diverte già ad amministrare la sua giustizia bizzarra, ha preso possesso dei villaggi e delle campagne. I capitelli sono bianchi e neri; non c’è traccia di rosso, di ferite aperte, di umori perduti per sempre. Ma il viso del condannato si deforma, come capita a un uomo lasciato in balia dei suoi desideri. La smorfia rimane, mentre il registratore blocca il fotogramma e un filtro tramuta l’episodio in un quadro moderno, correggendo i suoi colori.
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Ora mi alzo e cammino. I miei pensieri sono turbati, benché nessun nemico abbia violato gli scaffali in cui restano allineate le riviste, le cassette, i volumi della biblioteca. Tra poco verrà il momento di esaminare i rapporti quotidiani inviati da Parigi, Londra e Roma. Oggi non sono molto disposto alle compravendite.
I momenti di pigrizia sono frequenti, recentemente. Il problema maggiore, appena arrivato, consisteva nell’eliminare il disgusto che tutte le attività umane sembravano provocare. Non ho mai coltivato a fondo l’introspezione; ho trovato più utile predisporre una serie di esercizi mentali, una specie di ginnastica silenziosa che mi permette di ripulire la vita, sporcata dagli insulti del tempo. Mi accorgo che gli ultimi anni si sono risolti in un enorme sfoggio di volontà; ma non ho incontrato un maestro che potesse segnare il ritmo della corsa, né indicarmi quando tagliavo il traguardo e quando fallivo. Ignoro anche il motivo che mi ha portato a perfezionare questa spinta nascosta che, evidentemente, è cresciuta senza incontrare ostacoli.
È probabile si tratti del medesimo disgusto a cui accennavo. Mi capita, svegliandomi all’alba, di salire sulla torretta che ho costruito sul terrazzo della villa, per meglio dominare il golfo; il mare è quasi sempre calmo, ed è l’unica occasione nella giornata in cui si dipinge di una tinta grigia. Le onde allora appaiono molto sottili, come le pieghe di un vestito leggero. Qualche uccello le solca, gridando. Il paesaggio assomiglia a un limbo che non si aprirà mai né all’estate né all’inverno. Fa freddo, e io mi proteggo con una coperta da cui spunta solo la testa.
In teoria dovrei apprezzare l’esibizione di una natura intatta; invece ritorna l’ansia, e quasi rimprovero il clima per la sua innata fragilità. Il Mediterraneo mi piace quando il sole è così alto da costringere le persone a rifugiarsi nelle stanze buie. Certe mattine bevo un liquore forte che mi stordisce, poi esco di nuovo, per essere sommerso dal mezzogiorno. L’alba rappresenta invece il lato debole dell’universo, una duttilità che mi ferisce, il ventre molle della creazione. Così, cerco donne fisicamente forti, con i muscoli tesi. Meglio se sono affilate, e costanti come me. Non mi interessa conoscere le loro preoccupazioni, se ne hanno; detesto la sollecitudine materna, la cedevolezza del corpo.
Quante volte mi sono svegliato così, nei mesi scorsi? Molte, sicuramente. Finché non mi è venuto a noia anche questo sentimento vago e ho iniziato a correre sulla spiaggia, là dove ho fatto disegnare una stradina di sassi. Tre metri dall’acqua, non di più. Ma ho voluto sassi duri, che colpissero i miei piedi nudi. Ora mi accorgo che il disgusto probabilmente viene dal non aver mai affrontato un avversario di valore. Infatti, quando concludo le trattative con i mercanti che di tanto in tanto approdano qui, la realtà si spiana davanti ai miei occhi.
Sono sempre molto cortese. Ho imparato a individuare i soggetti pericolosi, quelli che non avrebbero remore ad accoltellarmi al primo contrasto, lasciandomi riverso e senza vita in un vicolo della città. L’orgoglio è il dato fondamentale; spesso devo confrontarmi con gente che è riuscita ad emergere a stento da una condizione detestabile. Famiglie promiscue in cui il padre d’abitudine violentava le sorelle e picchiava il figlio maschio davanti ai nipoti. Non bisogna mettere in discussione il loro orgoglio, anzi; occorre blandirlo, perché è l’unica virtù che li ha salvati, da giovani. Devo ammettere che molti di loro hanno un aspetto elegante. Sono simili a trecce di filo spinato, taglienti e tenaci; mi convincono, anche se la mia è una storia diversa. Mi sono dedicato per cinque anni allo studio del greco antico, la materia preferita; non sospettavo che avrei usato una sua variante moderna per concludere traffici strani. Niente dialoghi socratici; qualcosa di meglio, di maggior impatto.
‘‘Di te mi fido. Sei straniero, ma ci assomigli. Xenia, una birra.’’
Odio la birra, sia chiara che scura. Ma non potevo offendere l’interlocutore, mettere in dubbio la sua onestà, perdere il punto di contatto faticosamente trovato. Ho bevuto una pessima birra di Salonicco, che riempiva d’aria lo stomaco e fasciava la bocca di un sapore amaro, come di gusci di noce pestati. La mattina dopo, vomitando, la cifra pattuita mi ha consolato.
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Conosco un trafficante di nome Filio, nato a Creta, sulla parte disabitata della montagna. Mi ha raccontato, mentre navigavamo verso l’Albania in cerca di una base d’appoggio relativamente sicura, che sua madre non sapeva parlare. Non era muta, ma aveva dimenticato il dialetto del luogo e comunicava con gli altri mugolando. Questi suoni gli erano rimasti tanto impressi che ancora trasaliva quando sentiva un cane piangere, o un legno cigolare sotto il peso del vento. Per contrappasso, Filio capisce tutte le lingue del mondo. Anche lui mi ha preso in simpatia, forse perché vede che ho abbandonato gli altri europei e mi disinteresso dell’evoluzione della nostra società. È un gigante dalla carnagione scura, goffo e talvolta un poco violento. Quando beve molto vino è preso da una malinconia straordinaria e i suoi occhi piangono, anche se la voce resta uguale. Ma non riesce a rivelarmi la completa verità. È questo il mio limite: gli avventurieri evitano di spiegare i motivi del loro commercio, la ragione che li costringe a guadagnare somme enormi, spesso minacciate da qualche confisca governativa.
Non ho un amico. Filio potrebbe esserlo, se non rimanesse in lui un grumo di terrore, il ricordo della sua mamma capra, un gusto di formaggio insopportabile. D’altra parte, anch’io mi comporto così. Non annuncio mai quello che intendo concludere domani, sarebbe troppo pericoloso. Ma nemmeno voglio diventare un confidente della polizia. Mi limito a pagare un brigadiere che viene tutti i mesi a chiedere notizie, con la speranza di arrestare Filio. Gli piacerebbe trovare un pretesto per incastrarlo, rinchiuderlo in galera e picchiarlo selvaggiamente.
‘‘Novità, signor italiano?’’ Mi chiama italiano solo per scherzare. Secondo lui non ho una patria, sono peggio dei pirati veneziani che scendevano dall’Istria per rubare stoffe preziose, avvelenando nel sonno i Turchi.
‘‘Accetta un regalo, brigadiere?’’ Come straniero posso corrompere chi voglio. La mia posizione non è mai stata regolarizzata, e questo dettaglio arricchisce la grande compravendita, levantina, eterna: in un paese che non produce nulla vengono continuamente scambiate cose. Passano: petrolio, manganese, carbone e mercurio, gioielli, anfore, tappeti. Siamo abituati ad ammirare per un attimo questa merce preziosa, che forse non serve a nessuno. Naturalmente, il cibo e gli svaghi costano davvero poco. Gli unici oggetti preziosi della villa sono le apparecchiature elettroniche arrivate dal Giappone e una statuetta di Atena del periodo arcaico, che ho conteso a lungo ad uno stupido armatore. Sperava di regalarla alla sua amante, perché gli perdonasse la brutalità della vecchiaia. Un professore mercenario lo aveva convinto a investire un patrimonio.
Sul volto di Pallade appare un leggero sorriso. Ho veramente dato fondo al raccolto di un’intera stagione per averla. L’amante dell’armatore mi ha sorriso a sua volta, quando l’asta è finita. Ma la dea e quella donna non sono paragonabili: troppo florida e volgare l’una, scanalata l’altra, pulita dalla sabbia e dalle foglie che hanno strisciato sul suo volto. Un resto dorato le abbellisce il collo; l’insieme ispira rispetto, quasi che una parte del potere regale della figlia di Zeus camminasse intorno, costringendo i mortali ad ammutolire. Filio ha mormorato: ‘‘È troppo bella. La ruberanno presto.’’
No, lei si difenderà, gli ho detto. E per aiutarla ho comprato un sistema d’allarme che vigila sulla nicchia in cui è rinchiusa. Se la guardo troppo, mi sembra che una processione scorra dietro di me; per un attimo temo di incrociare una figura minacciosa, un sapiente, un mago. Ma nessuno può sorvegliare il sonno della dea quando la ragione dorme, esausta per i suoi stessi errori.
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Spero che la fortuna assista le mie prossime mosse. Sono costretto ad agire in fretta per disinnescare la minaccia di Paola. È difficile spiegare cosa sta accadendo. Mi hanno riferito che è in cerca di notizie da vendere al miglior offerente. Forse vuole ottenere un lavoro prestigioso, una carica che elimini la precarietà di cui ha sempre sofferto. Sono nel suo mirino; sospetta che io abbia commesso un furto, una truffa, o qualcosa di peggio. Sta investigando; vuole controllare i miei commerci, nel presente e nel passato. Si chiede in che modo sono riuscito a diventare quello che sono. Non posso certo risponderle che a favorirmi è stato il greco antico.
Leggerò domani le mie carte. Non domani, anzi, perché ho deciso di partire. Andrò ad Atene per incontrarla, nel tentativo di fermare la sua sete irrazionale di sapere. Non permetterò che salga sul traghetto; sull’isola, disturberebbe troppo la mia esistenza.
Le persone non cambiano molto, dagli anni della scuola all’epoca delle prime responsabilità e dell’impegno; quando lo fanno, però, di solito seguono una strada sbagliata. Il bacio che lei mi ha dato aveva in sé una forza eccessiva, era sproporzionato rispetto al nostro affetto. È rimasto sospeso in aria come un trofeo, un animale impagliato che il cacciatore ha ucciso con un colpo solo. Infatti, non è l’avidità a inquietarmi davvero: conosco molti espedienti che riescono a sanare situazioni miserabili, e concedono un sollievo temporaneo ai disgraziati. Ma la determinazione di Paola mi stupisce. Se non ha ancora capito che non ho segreti, allora sbaglia in modo tanto clamoroso da essere costretta a continuare.
Spero sia più carina, oggi, così da poterla corteggiare; se c’è spazio per un’illusione o per il gioco, verranno anche stabilite regole, un codice provvisorio di comportamento. Al contrario, se non mi consente nemmeno una galanteria, un gesto gentile, sarà sicuramente guerra. Non è prepotenza, è semplicemente saggezza.
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Laggiù, dove finisce il golfo, c’è un pezzo di castello in rovina, costruito dagli italiani nel secolo scorso. Quello è il mio avamposto ideale: dai suoi muri diroccati parte una linea immaginaria che separa il mare aperto dall’acqua più calma. In realtà, c’è poca differenza: nessuna tempesta oceanica si abbatte mai sulla costa e i temporali si risolvono in una bella e innocua grandinata. Ma un uomo ha il diritto di inventarsi una barriera, per superarla in un senso e riposare dietro a lei nell’altro. Le mie fatiche devono avere un premio. Mia madre diceva, quand’ero bambino: ‘‘Fai delle cose che durino, e per il resto del tempo divertiti.’’ Non le ho mai ubbidito. La natura mi ha distratto, le nuvole del cielo hanno lasciato la loro ombra sui libri, i progetti, gli assegni.
Quando porto a termine una transazione, ad esempio, batto sulla tastiera una serie di caratteri in chiave che rappresentano una firma riconosciuta da mezzo mondo. Nell’attimo della conferma sento un suono a tre toni che nasce dalla macchina; invisibile, il messaggio è nell’aria, nei cavi, nei fili che uniscono la mia proprietà all’universo. La pioggia e il vento non possono cancellarlo. Ma cosa rimane della mia volontà, se tutto viene eseguito da mani sconosciute, che non si danno pena dei destini altrui? Le imprese nate senza materia non hanno una terra su cui ritornare.
Eppure, amo l’isola proprio per la sua leggerezza, perché assomiglia a una zattera blandita dai flutti. Se uno strumento infernale mi informasse del dolore che le mie decisioni provocano sul versante opposto del Mediterraneo, non farei più nulla. Dormirei mattina e sera.
Temo che Paola mi stia obbligando a una nuova deviazione. Finita la festa, devo accompagnarla ancora. Chiederò a Massimo se il biglietto di andata e ritorno è pronto.
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